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TRIBUNALE DI PERUGIA

Microchip: inoculazione abusiva, ma il reato è senza prove

Microchip: inoculazione abusiva, ma il reato è senza prove
L'inoculo del microchip nel cane è una riserva esclusiva del Medico Veterinario. Ma l'allevatore va assolto. Testimonianze insufficienti a supportare le accuse del Veterinario.

“In ordine al delitto di esercizio abusivo della professione veterinaria, la mera inoculazione di microchip nel corpo dei cuccioli, pur nella sua apparente semplicità, è riservata ad un medico veterinario”. Così la Corte d'Appello del Tribunale di Perugia su un caso che ha visto un allevatore di cani imputato per esercizio abusivo della professione veterinaria, un reato perseguibile ai sensi dell'articolo 348 del Codice Penale: reclusione da sei mesi a tre anni o multa da 10mila a 50mila euro.

Il reato e le sue prove- La pronuncia della Corte aggiunge giurisprudenza e certezza sulla microchippatura come atto medico veterinario esclusivo. Tuttavia il procedimento non si è concluso con la condanna dell'allevatore imputato per mancanza di prove. La violazione della riserva esclusiva veterinaria integra, sì, “l’elemento oggettivo del reato contestato”, ma nel caso di specie non ci sono prove che possano ricondurre l’inoculazione dei chip da parte dell’imputato.

Testimonianze troppo generiche- Per la Corte, come riporta il quotidiano Perugia Today, le deposizioni dei testimoni sono apparse “generiche su alcuni punti focali della vicenda, inidonee a disattendere con sicurezza quelle rese dal Veterinario che, in udienza, affermava di aver accompagnato l’imputato, suo cliente, presso l’allevamento umbro della parte civile per inoculare i microchip sui sette cuccioli di quest’ultimo”.

Non dimostrato l'acquisto di chip da un Veterinario- Incertezza anche sulla “data del messaggio acquisito agli atti, secondo cui l’imputato avrebbe avuto la disponibilità dei microchip acquistati dal suo veterinario" così da non poter dare un apporto decisivo ai giudici.

In dubio pro reo- Quando sorgono dubbi la decisione deve essere in favore dell’imputato. Applicando il principio in dubio pro reo, i giudici di appello hanno confermato l’assoluzione dell’imputato e condannato la parte civile appellante al pagamento delle spese.