A processo una coppia di allevatori e due veterinari, coinvolti in un traffico internazionale di cani. Per tre imputati il pm chiede due anni e sei mesi di carcere.
Cuccioli di cane di incerta provenienza, venduti per somme che si aggiravano, in media, intorno ai cinquecento euro versati in nero.Una coppia di allevatori fossanesi e due veterinari del cuneese sono indagati per un traffico internazionale di cuccioli dall’Ungheria all’Italia.
Le indagini- Durante l’inchiesta “Nero Wolf” è emerso che una veterinaria aveva fornito falsi libretti sanitari e microchip ai trafficanti, allo scopo di “italianizzare” i cani, in realtà trasportati dall’Europa centrale in condizioni inumane. Nel corso della perquisizione del suo studio, altri faldoni avevano attirato l’attenzione dei Carabinieri Forestali. Riguardavano un allevamento gestito da una coppia.: oltre alla sede principale presso la loro abitazione, i due avevano una struttura analoga nel paese dei veterinari finiti nell'inchiesta. Quando i veterinari ispettori vi avevano fatto accesso, insieme alle forze dell’ordine, avevano trovato decine di cani in parte registrati a nome dei due allevatori, in parte intestati a persone terze, in parte non registrati affatto: “Alcuni erano identificati col microchip ma non registrati in anagrafe, altri segnati a nome di diversi proprietari” ha ricordato uno dei veterinari presenti all’accertamento.
L'accusa e le condanne chieste dalla Procura- “Sebbene l’allevamento avesse solo alcune tipologie di razze assegnate, - ha ricordato nella requisitoria il sostituto procuratore Carla Longo - commercializzavano qualsiasi tipo di cucciolo di cane: dai pastori tedeschi ai pincher, barboni, cocker spaniel”. A seguito degli interrogatori dei vari acquirenti, la Procura ha formulato accuse di falso e favoreggiamento nei confronti di due veterinari; dal 2017 uno avrebbe “sostituito” la collega nel rapporto con i due allevatori fossanesi. Per questi ultimi, invece, c’è l’ulteriore imputazione di esercizio abusivo della professione veterinaria, scaturita dal ritrovamento di alcuni vaccini nel frigorifero della loro abitazione. A tutti e quattro gli imputati era contestata l’associazione a delinquere, poi venuta a cadere: “In dibattimento non è emersa prova della struttura organizzativa” ha riconosciuto il pubblico ministero, chiedendo tuttavia la condanna a due anni e sei mesi, senza attenuanti generiche, per tre degli imputati. Nei confronti della quarta, ovvero la veterinaria è ormai maturata la prescrizione. “La posizione dei veterinari è la più grave sotto il profilo del disvalore penale” sostiene la rappresentante dell’accusa: questo perché “il veterinario che installa il microchip e compila la scheda di identificazione compie un atto necessario all’iscrizione dell’anagrafe canina e questo certifica anche la provenienza certa del cucciolo”. Provenienza che nei casi esaminati, al contrario, era quantomeno dubbia.
Vendita on line- “Esiste a monte un dubbio notevole sul fatto che gli allevatori fossero i reali proprietari dei cani da cui venivano generati i cuccioli venduti”.I cuccioli “venivano pubblicizzati online su Subito e su altri siti, con le indicazioni dei loro recapiti telefonici”. False tutte le schede acquisite, ha sottolineato il magistrato, e significativo il ritrovamento, in casa degli allevatori, “dei libretti in bianco, con timbro e firma del veterinario, che dovevano essere solo nella disponibilità di questi ma evidentemente venivano utilizzati dagli allevatori”.
La difesa- “Se la procedura non è stata rispettata ciò è ascrivibile alla condotta scellerata degli allevatori” ribatte l’avvocato Fabrizio Di Vito, difensore dei due professionisti: “Nessuna legge impone al veterinario la compilazione contestuale dei dati, l’importante è che i dati immessi siano esatti”. Inoltre, aggiunge il legale, “i libretti sanitari non sono documenti ufficiali, servono solo per ricordare i vaccini del cane e possono essere molteplici: cosa diversa è il passaporto che deve avere caratteristiche e un contenuto ufficiali”. Allo stesso modo “la vaccinazione non è obbligatoria, se non in casi speciali. Lo è solo il microchip”. A queste considerazioni l’avvocato Enrico Gallo, difensore dei due allevatori, aggiunge un appunto sull’accusa di esercizio abusivo della professione: “Unico elemento a carico è la detenzione di farmaci in un frigo: ma non c’è prova che i vaccini siano stati somministrati ai cani dagli allevatori”.
Il prossimo 10 luglio arriverà la sentenza del tribunale.