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CASSAZIONE

Custodia cautelare in carcere per corse clandestine di cavalli

Custodia cautelare in carcere per corse clandestine di cavalli
La Cassazione ha confermato la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Messina: custodia cautelare in carcere in relazione al reato di cui all'art. 416 c.p., associazione per delinquere finalizzata ai delitti di maltrattamento di animali e di competizioni non autorizzate di animali.
L'imputato, contestando la sentenza del tribunale e negando il ruolo di "organizzatore" delle corse clandestine, aveva fatto ricorso, ma la Cassazione Penale l'ha ritenuto "inammissibile" ed ha confermato la tesi del Tribunale.
Per il Giudice di Messina, tutti gli elementi indiziari riportati nell'ordinanza del g.i.p. sono stati gravi indizi di colpevolezza, anche in base alle trascrizioni delle conversazioni telefoniche intercettate, dai verbali di perquisizione e sequestro e dalle annotazioni di p.g. relativi a servizi di appostamento ed osservazione.

Dagli esiti delle indagini infatti - ha sottolineato il tribunale - era emerso come fosse in atto "un'associazione a delinquere finalizzata all'organizzazione di corse clandestine di cavalli e di maltrattamenti di animali, consistiti segnatamente nella sottoposizione degli equini ad addestramenti massacranti, nella somministrazione di farmaci finalizzati al potenziamento muscolare ed in generale all'incremento delle prestazioni fisiche degli animali, ed infine nella stessa partecipazione dei quadrupedi alle gare illecite, obbligando gli animali a correre in condizioni non confacenti alle loro caratteristiche etologiche in guisa da metterne in pericolo l'incolumità".
In particolare il tribunale ha ritenuto sussistere il vincolo associativo "tendenzialmente stabile e permanente tra diverse persone, di numero superiore a tre, desumibile dall'univoco e ripetitivo modus operandi dei sodali, i quali sottoponevano gli animali a stress psicofisici e fatiche incompatibili con le loro caratteristiche etologiche, sottoponendoli ad allenamenti massacranti, a vere e proprie sevizie - percosse mediante l'uso di bastoni e di caschi da motociclista - nonché ricorrendo al doping sistematico allo scopo di aumentare il rendimento fisico degli animali".

Il tutto era finalizzato all'organizzazione di vere e a proprie corse clandestine che si svolgevano secondo un rituale che prevedeva tre diverse fasi: una prima fase ispettiva e di controllo del percorso di gara, rigorosamente sulle pubbliche vie, nell'ambito della quale alcuni soggetti avevano il compito di effettuare dei giri di ricognizione; una seconda fase di raduno presso il luogo di partenza degli spettatori interessati alla gara, i quali perfezionavano le scommesse sul vincitore; infine una terza fase, costituita dalla partenza dei cavalli all'orario prestabilito seguita da un corteo di motocicli disposti ad "U" in modo da accerchiare i quadrupedi e garantire che la gara volgesse al termine. I sodali programmavano le corse con regolarità, pianificando nei dettagli orari, luoghi, peso degli animali e dei rispettivi fantini, e la posta in gioco, ricorrendo a tal fine ad un linguaggio univoco, di certo non comprensibile per i soggetti esterni all'associazione, codice che, invece, consentiva ai sodali di intendersi alla perfezione.

Ulteriore "conferma dell'accordo criminale era offerta dalla stabilità dei rapporti tra i sodali, i quali avevano una ben precisa divisione dei ruoli. L'imputato principale – insieme ai coindagati- era tra gli organizzatori delle corse, i quali potevano decidere la data, il luogo, l'orario e tutti gli altri dettagli della competizione illecita in modo vincolante per l'intero gruppo. È inoltre risultato che l'indagato disponeva di una stalla, al cui interno in sede di perquisizione venivano rinvenute una confezione di farmaci ed una siringa. Peraltro, il box adibito a stalla si prestava ad una gestione comune dei luoghi e degli animali ivi detenuti, elementi sintomatici del vincolo associativo e della comunanza d'interessi tra i soggetti suddetti.

Infine l'imputato, "anche se non partecipava personalmente ai maltrattamenti degli animali consistiti nella loro sottoposizione ad allenamenti massacranti e a percosse mediante bastoni o addirittura "pezzi di mascella e caschi da motociclista" nonché nella somministrazione di farmaci a scopo non terapeutico - ne era perfettamente a conoscenza", in quanto veniva informato circa l'andamento delle prestazioni dei cavalli in sede di allenamento, caratterizzato dalle sevizie suddette, "e manifestava apprezzamento per i risultati raggiunti".

pdfLA SENTENZA DELLA CASSAZIONE PENALE.pdf103.01 KB