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DANNI DA FAUNA SELVATICA: LE PROPOSTE

DANNI DA FAUNA SELVATICA: LE PROPOSTE
La Commissione Agricoltura della Camera ha concluso l'indagine conoscitiva sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica. Il fenomeno risente di dati incerti, ma reclama indennizzi. Soluzioni e proposte nel documento conclusivo, pubblicato nella seduta parlamentare di ieri.

Si è conclusa l'indagine conoscitiva sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica e la Commissione Agricoltura della Camera ha pubblicato il documento che riepiloga le problematiche affrontate in un lungo ciclo di audizioni.

L'indagine è stata rivolta ad acquisire una completa informazione sul fenomeno dei danni causati dalla fauna selvatica alle produzioni agricole e zootecniche, sulla tipologia, sulla localizzazione geografica e sulla quantificazione economica dei danni denunciati, sulle colture danneggiate e sulle specie animali interessate, nonché sull'attività svolta dalle amministrazioni competenti e sull'insieme degli strumenti di cui si sono avvalse, con riferimento agli indennizzi richiesti ed erogati.

Il problema di fondo è la mancanza di dati certi, di una analisi quantitativa seria ed attendibile basata su dati certi, che permetta di ricostruire il quadro preciso del fenomeno (tipologia dei danni, quantificazione, tipo di colture danneggiate e specie animali interessate) e di conoscere la consistenza dei danni arrecati all'agricoltura dalla fauna selvatica. In tal senso assumono particolare rilevanza i dati contenuti nel documento approvato dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome. Tali dati evidenziano che i danni causati dalla fauna selvatica alle coltivazioni agricole sono ingenti e presenti in tutte le regioni, ancorché differenziati in ragione del territorio, delle colture presenti e delle specie che li causano. Oltre ai danni alle colture sono ingenti anche i danni alla zootecnia, mentre le specie responsabili sono non solo specie cacciabili, ma anche specie protette, come ad esempio lo storno e il lupo.

Non si può prescindere dalla considerazione in merito all'inaffidabilità dei dati attualmente raccolti, la cui rilevazione è spesso affidata alle associazioni venatorie, evidentemente parti in causa nella determinazione del fenomeno, e non ad enti qualificati, quali potrebbe essere l'ISPRA, che solo può disporre del personale e degli strumenti scientifici adatti ai censimenti.

Passando alle questioni di merito, con riguardo ai danni provocati dagli ungulati, se è emerso nel corso dell'indagine che le cause che hanno favorito l'espansione e la crescita di tali popolazioni sono legate a molteplici fattori, è pur vero che le immissioni a scopo venatorio, iniziate negli anni '50, hanno sicuramente giocato un ruolo fondamentale, in quanto condotte in maniera non programmata e senza tener conto dei principi basilari della pianificazione faunistica e della profilassi sanitaria.

Va quindi presa in considerazione l'opzione di introdurre divieti, eventualmente temporanei, di immissione sul territorio di esemplari di fauna per le specie di cui è stato accertato uno squilibrio delle popolazioni, in particolare il cinghiale, che determinano un danno grave alle produzioni agricole, nella prospettiva di una più oculata politica di immissione della fauna. Per specie quali il cinghiale appare indispensabile un piano di gestione complessiva a livello nazionale.

In questa ottica va fortemente privilegiata la collaborazione con gli agricoltori, anziché quella con i cacciatori, che non hanno un reale interesse a far diminuire il numero degli animali sul territorio. Il coinvolgimento delle aziende agricole dovrebbe configurarsi come una prestazione di servizi alla pubblica amministrazione competente nella gestione faunistica e prevedere un adeguato compenso economico, che può realisticamente essere recuperato dalla riduzione della spesa per gli indennizzi dei danni o comunque previsto nell'ambito del bilancio ordinario destinato agli interventi per la gestione della fauna e dell'attività venatoria.

Una proposta da valutare con attenzione è quella dell'individuazione delle aree da ritenersi vocate alla presenza faunistica e di quelle, invece, ove la presenza delle attività agro-silvo-pastorali impone la riduzione al minimo del numero di cinghiali al fine di prevenire danni alle persone e cose, nonché alle attività agro-silvo-pastorali stesse che risultano essere quelle maggiormente colpite.

Accanto alle problematiche legate agli ungulati e in generale delle specie cacciabili, l'altro importante filone dell'indagine si è sviluppato in merito ai danni arrecati all'agricoltura da parte di specie protette.

In tale direzione le azioni non possono che essere legate alla mitigazione e al contenimento dei danni attraverso investimenti strutturali e, soprattutto, attraverso un'attenta verifica e analisi delle modalità di gestione di alcune attività, come quella d'allevamento, che non può più svolgersi allo stato brado: tale tecnica infatti favorisce la predazione da parte di specie per le quali si è anche andata riducendo la disponibilità delle originarie prede selvatiche.

Nelle situazioni più allarmanti va valutata la possibilità di azioni di contenimento e di cattura.

In realtà il problema più spinoso con riguardo ai danni inferti da specie protette attiene alle difficoltà di accertare se la responsabilità dei danni sia imputabile al lupo o alla presenza dei cosiddetti ibridi, che in alcune aree rurali sono diventati sempre più numerosi. La questione degli ibridi è particolarmente significativa in quanto strettamente legata alle possibilità di ottenere il risarcimento da parte degli agricoltori danneggiati. A tal fine andrebbero incoraggiate le sperimentazioni da parte delle amministrazioni locali di metodi per distinguere le due specie, anche sulla base dell'analisi degli escrementi rinvenuti nelle aree in cui sono avvenuti gli attacchi.

La questione della distinzione tra il predatore lupo e tutto ciò che è ibrido deve essere affrontata con strumenti, anche normativi, che garantiscano il contenimento degli ibridi. In tal senso sarebbe utile effettuare un censimento potrebbe consentire di capire e di chiarire qual sia la problematica a livello territoriale, anche in funzione di alcuni piani.
Appare dunque fondamentale affrontare il tema della prevenzione e dei costi che essa comporta. Le risorse finanziarie per garantire adeguati incentivi economici alle aziende agricole e zootecniche potrebbero essere reperibili nell'ambito dei programmi di sviluppo rurale adottati dalle Regioni in attuazione della Politica agricola comune (PAC).

È di tutta evidenza che una questione di preminente rilevanza, per il mondo agricolo, è quindi legata alle possibilità di risarcimento del danno. Le ipotesi di danno causato dalla fauna selvatica non dovrebbero essere circoscritte ai soli danni alle colture agricole o zootecniche, come previsto dalle attuali norme, ma dovrebbero includere anche i danni a cose e persone. Va altresì considerato il problema dei danni indiretti, in particolare per gli allevamenti, che oggi non sono considerati risarcibili, quali animali dispersi, perdite di fertilità, diminuzione del latte, aborti indotti; per non parlare dei costi dello smaltimento delle carcasse.

Per far fronte ai risarcimenti si dovrebbe poter disporre di risorse economiche aggiuntive. Si potrebbe in tal senso pensare ad un sistema di contributi per polizze assicurative sottoscritte dalle imprese agricole analogamente a quanto avviene con il Fondo di solidarietà nazionale per le calamità naturali.

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