“E’ reato di maltrattamento, anche nella formulazione novellata, non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali destando ripugnanza per la loro aperta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità dell'animale, producendo un dolore". E’ quanto sentenzia la Cassazione, intervenendo su un caso di maltrattamento in un canile in provincia di Massa Carrara risalente al 2006, quando il Tribunale aveva riconosciuto colpevole il titolare gestore della struttura, perchè “sottoponeva a maltrattamenti i cani ivi custoditi con modalità di allevamento particolarmente dolorose”. L’interessato aveva fatto ricorso, ma la Cassazione ha confermato all’inizio di novembre tutti gli estremi di reato ai sensi del Codice Penale, riservandosi anche di commentare: “è davvero incomprensibile come il ricorrente possa sostenere che sia mancata, da parte del giudice di merito, la sofferenza inferta agli animali”. Il titolare del canile si era difeso sostenendo fra l’altro la “non ravvisabilità dell’elemento psicologico del reato”, una tesi rigettata dalla Corte, che ha ritenuto invece di basarsi sulla documentazione prodotta a suo tempo dai Carabinieri e dalla veterinaria nominata CTU, documentazione che provava “maltrattamenti di tipo ambientale, igienico e alimentare” e concludeva che il canile era “nient’altro che un ghetto per animali sfortunati imprigionati in uno stato di penosa sopravvivenza”. La condanna della Corte è stata di 1000 euro più il pagamento delle spese processuali.