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DALLA SIVAR DURA REPLICA ALLA CARAMELLI

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Individuare nel veterinario libero professionista il responsabile dei casi di encefalopatia spongiforme bovina verificatisi nel nostro Paese ( da ieri il bollettino ufficiale del Ministero della Salute ha dato notizia del 54° caso accertato) presuppone la mancanza di una puntuale analisi di quanto accaduto nel nostro Paese prima e dopo l’emergenza. Le dichiarazioni di Maria Caramelli al Corriere della Sera hanno suscitato la reazione indignata e sorpresa della Società Italiana Veterinari per Animali da Reddito, il cui Consiglio Direttivo si è riunito ieri per discutere di BSE alla luce del caso siciliano di Creutzfeld Jacob. “La Collega Caramelli – si legge nella nota del Consiglio Direttivo SIVAR - individua erroneamente nel veterinario libero professionista un colpevole anziché un alleato alle sue stesse considerazioni sull’inefficacia del sistema di sorveglianza epidemiologica applicato in Italia, dimostratosi insufficiente sia quando si basava sulla sola sorveglianza passiva sia da quando, in tempo di emergenza, è stato abbinato alla sorveglianza attiva. Si è infatti continuato a trascurare il mancato raccordo tra i due sistemi, un anello che compattasse la rete di sorveglianza epidemiologica individuabile nel Veterinario Riconosciuto, una figura che sia istituzionalmente contemplata dal sistema di sorveglianza, di collegamento tra l’allevamento e le istituzioni preposte ai controlli. Allo stato attuale, il “veterinario aziendale” citato dalla Collega Caramelli, è un libero professionista che ha con l’allevatore un rapporto di consulenza esterna, che accede all’allevamento a richiesta del proprietario, spesso solo occasionalmente e con la possibilità di essere sostituito da un altro Collega. Ben diversa sarebbe la possibilità di esercitare un monitoraggio epidemiologico costante per il Veterinario Riconosciuto, il cui progetto è stato ripetutamente proposto dai liberi professionisti alle autorità competenti quando ancora l’Italia non aveva registrato casi autoctoni della malattia. La stessa anagrafe bovina, che il Ministero delle Politiche Agricole indica come la vera soluzione del problema BSE, non potrà dare garanzie se non si baserà sulle informazioni e sulle competenze del veterinario. Le reazioni politiche all’epidemia, fin dal primo caso di BSE in Italia, nel gennaio del 2001, sono più orientate a rassicurare l’opinione pubblica e la produzione che ad affrontare efficacemente e razionalmente l’emergenza. Lo dimostrano le misure adottate dai Governi italiani di questi anni, da più parti giudicate tardive e insufficienti. Allo stamping out in allevamenti dove si fosse registrato anche un solo caso di encefalopatia spongiforme bovina, gli allevatori hanno risposto evitando di segnalare eventuali casi sospetti. Tanto ha fatto la criminalizzazione degli allevatori che solo per sfortuna e non certo per dolo hanno avuto casi positivi. La decisione di rottamare migliaia di capi in cambio di indennizzi, anche se ha permesso di rinnovare il nostro patrimonio zootecnico con l’eliminazione di capi vecchi e improduttivi, ha sottratto dati sulla reale incidenza della malattia, facendo legittimamente supporre che i casi italiani di BSE siano molti di più dei 54 accertati ad oggi. Su questo dato inoltre c’è l’ombra della diffusione illegale di test in vivo che non ha avuto un’adeguata risposta da parte delle istituzioni: gli allevatori di fronte al minimo dubbio evitano di segnalare i capi risultati positivi. La situazione in cui opera il veterinario libero professionista oggi è quella di chi non viene aggiornato dalle istituzioni preposte sull’andamento delle indagini epidemiologiche ( a tutt’oggi molti colleghi non hanno ancora ricevuto le schede informative di raccolta dei dati) e di chi lavora correndo il rischio che gli allevatori cerchino di difendere la produzione a scapito del rapporto con il veterinario, evitando di richiederne l’intervento in caso di alterazioni locomotorie o nervose”.