Carrellata di pareri nell’inchiesta di Repubblica Salute sulla sperimentazione animale, per delineare un quadro ancora ricco di contrasti, ma sempre più ricettivo nei confronti di quanti chiedono maggiori verifiche, controlli e misure di protezione degli animali.
Mauro Mancia, direttore del Centro di ricerca sperimentale sul sonno all’Università di Milano: «Noi studiamo i grandi sistemi, la ricerca di base sulle cellule nervose non sarebbe mai progredita senza la sperimentazione animale e da alcuni anni i movimenti antivivisezionisti proibendo molti esperimenti limitano la nostra ricerca. Diverso, sotto certi aspetti, è il discorso sugli studi di genetica, in questi casi l’animale si può sostituire con altri modelli». Diverso il parere del professor
Giovanni Tamino, docente di Biologia all’Università di Padova: «Se uso tre animali diversi anche della stessa specie ottengo tre risultati diversi, questo accade anche se esperimento farmaci, cosmetici, un po’ meno, forse, per la chirurgia ma in ogni caso è solo la sperimentazione sull’uomo che dà i veri risultati e questo è vero soprattutto per i trapianti come per i farmaci. Persino con l’animale geneticamente modificato i risultati sono divergenti. La sperimentazione sull’animale è valida solo se intraspecifica».
Annarita Meneguz, direttore del reparto di Farmacologia biochimica del Laboratorio di farmacologia dell’Istituto superiore di sanità, negli anni ‘7080 si usavano indiscriminatamente tutti gli animali, i cani in particolare, perché ignoravamo il sistema di biotrasformazione dei farmaci nell’organismo. Ora, con uno screening sulle cellule epatiche di due, tre specie animali è possibile riprodurre qualitativamente i metaboliti che quel certo farmaco produrrà e la scelta dell’animale è mirata. Questo proseguirà fino a che la legge lo imporrà e finché non ci saranno sufficienti fondi per mettere a punto altri modelli».
Luigi Rainiero Fassati, direttore del Dipartimento di chirurgia generale dei trapianti all’ospedale Policlinico di Milano: «sperimentare sugli animali ha permesso di studiare il rigetto e le terapie immunosoppressive per i trapianti di rene e fegato; per il cuore, il trapianto più difficile, si continua a cercare un farmaco che possa impedire la chiusura delle arterie coronarie dopo il trapianto».
In Italia
la leggein materia di protezione degli animali utilizzati ai fini sperimentali o ad altri fini scientifici ricalca le precedenti leggi del 1931 e del 1941. Il dl del 27 gennaio 1992, n. 116 recepisce con un ritardo di sei anni la Direttiva 86/109/CEE sulla protezione degli animali usati a fini sperimentali. La "116" riconosce nel ministero della Salute «l’autorità responsabile del controllo degli esperimenti». Tra i compiti ministeriali c’è la raccolta dei dati statistici sull’utilizzazione degli animali e la relativa pubblicazione, definire quali animali debbano essere utilizzati e per quali fini, chi debba effettuare e come (anestesia generale o locale) gli esperimenti, chi e come debba allevare o fornire agli animali da esperimento.
Rodolfo Lorenzini, direttore del Servizio qualità e sicurezza della sperimentazione animale all’Istituto superiore di sanità, commenta così la situazione italiana: «Rispetto ad altri paesi, ad esempio gli Stati Uniti e il Giappone, è buona, c’è maggiore attenzione, grazie alla legge, a come si utilizzano gli animali, sappiamo che migliorare la qualità degli esperimenti significa ridurre quantitativamente gli animali impiegati. La legislazione, contrariamente a quanto accade in altre nazioni, ne permette l’utilizzazione solo se indispensabile e se non ci sono metodi alternativi, in tre settori: salute umana, alimenti e ambiente. Un aspetto positivo della nostra legge consiste nel comprendere tutta la sperimentazione, un aspetto negativo è che molta parte di questa sperimentazione avviene in regime di "autocertificazione", i controlli che spettano al ministero della Salute e alle Asl sono rari», sottolinea Rodolfo Lorenzini.
Stefano Cinotti, preside della facoltà di Medicina veterinaria dell’Università di Bologna, componente del Consiglio superiore di sanità:«La validazione di un metodo sperimentale alternativo è molto costosa e finché non si avranno per questo soldi a sufficienza la questione resterà impantanata nonostante la buona volontà della Comunità economica europea e dell’ECVAM, l’istituto con sede a Ispra che si occupa di certificare la validazione di nuovi modelli e test alternativi»,
Anna Laura Stammati, primo ricercatore del Dipartimento ambiente e prevenzione primaria dell’Istituto superiore di sanità: “l’obiettivo è sempre quello di ridurre l’impiego di animali”.